giovedì 8 marzo 2012

Deliri

Alchimia del verbo

A me. La storia di una delle mie follie.
Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo derisorie le celebrità della pittura e della poesia moderna.
Amavo le pitture idiote, soprapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura passata di moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisavole, racconti di fate, libretti per l'infanzia, vecchie opere, ritornelli stupidi, ritmi ingenui.
Sognavo crociate, spedizioni di cui non è rimasta relazione, repubbliche senza storie, guerre di religione soffocate, rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi.
Inventai il colore delle vocali! - A nero, E bianco, I rosso, O blu, U verde. - Regolavo la forma e il movimento di ogni consonante, e, con dei ritmi istintivi, mi lusingai d'inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l'altro, a tutti i sensi. Me ne riservavo la traduzione.
All'inizio fu uno studio. Scrivevo silenzi e notti, annotavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini.


***

 Tutto il ciarpame poetico fuori moda aveva una buona parte nella mia alchimia del verbo.
Mi abituai all'allucinazione semplice: vedevo veramente una moschea al posto di un'officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi sulla strada del cielo, un salone sul fondo di un lago; i mostri, i misteri; un titolo di operetta faceva sorgere di fronte a me spaventi improvvisi.
Poi spiegai i miei sofismi magici con l'allucinazione delle parole!
Finii per trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda ad una attossicata febbre: invidiavo la felicità degli animali, - i bruchi che rappresentano l'innocenza dei limbi, le talpe, il sonno della verginità!
Il mio carattere s'inaspriva. Dicevo addio al mondo in una specie di romanze:


CANZONE DELLA PIÙ ALTA TORRE

Venga dunque, venga il tempo
che di sé innamora.

Tanta pazienza ho avuto
da scordare tutto, infine.
Timori e sofferenze
sono partite in cielo.
E la sete malsana
intorbida le mie vene.

Venga dunque, venga il tempo
che di sé innamora.

Come la prateria
lasciata all'oblio
ingrandita, e fiorita
d'incenso e di loglio,
al feroce ronzio
delle sporche mosche.

Venga dunque, venga il tempo
che di sé innamora.

Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe sbiadite, le bevande intiepidite. Mi trascinavo nei vicoli puzzolenti, e con gli occhi chiusi, mi offrivo al sole, dio del fuoco.
«Generale, se rimane ancora un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra secca. Nelle vetrine di negozi splendidi! nei salotti! Fai mangiare alla città la sua polvere. Ossida le grondaie. Riempi i casini di polvere di rubino rovente...»
Oh! il moscerino inebriato nel pisciatoio della locanda, innamorato della borraggine, e dissolto da un raggio!

Arthur Rimbaud

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